Voglio, come medico internista ed ematologa, parlarvi di un mio sogno, un sogno di una “sanità tecno -umana, anzi direi “umano- tecnologica”, che si occupa di curare la persona nel senso più pieno della parola.
Certamente alcuni setting di cura vogliono dai sanitari efficienza, quindi velocità di intervento, efficacia, quindi risultati brillanti, appropriatezza, quindi cure sicure, al passo con le best practice, ma questo non basta perché non si comunica con la persona, neanche quando la fase di urgenza emergenza è superata.
Con il passare degli anni e osservando me stessa e i colleghi, riscontro sempre più questa tendenza, non solo in PS, ma anche nelle Unità Operative di degenza e questo non è fare una buona medicina.
Certo non voglio attribuire colpe, spesso si è troppo stanchi, i pazienti e i parenti vogliono sempre di più, spesso sono arroganti e pretenziosi, ma noi dobbiamo farci una domanda e rispondere a noi stessi con sincerità: quanto comunichiamo davvero e ancora se fossimo al posto loro?

Umanizzare: imperativo categorico del futuro
Cosa significa umanizzazione dei servizi? Cosa significa “paziente” al centro?
Sembrano concetti scontati, ne parliamo da anni, troppi, con una sanità che, all’opposto, evolve tecnologicamente e questo ben venga, ma i pazienti la percepiscono come sempre meno attenta alla persona, “tuffata” nella tecnologia, sommersa dal rapporto con i computer, con le piattaforme, con le e- learning machine.
Allora definiamo cosa si intende davvero per umanizzazione dei servizi, al di là delle dichiarazioni di intenti, al di là delle parole dietro cui si maschera una superspecializzazione, che può rendere aridi e poco empatici i medici e il personale di assistenza, lasciando al paziente una sensazione di “abbandono” del suo vissuto, delle sue paure e delle sue ansie.
Eppure, a fronte di una malattia grave, come è ad esempio il “tumore”, sono aumentati i follow up, che creano un cordone ombelicale tra ospedale e paziente, sono aumentati gli esami di controllo, si è introdotta la telemedicina per essere più vicini ai pazienti, o forse, ai loro sintomi, nonostante ciò i pazienti si sentono soli.
I medici sono sempre più scontenti perché?
I pazienti sono sempre più “sfiduciati” perché?
Certo non è generalizzabile, ma una rondine, si dice, non fa primavera.
La parola chiave, per una sanità più umana, è, che chi cura e assiste, dovrebbe “mettersi nei panni di”, deve pensare come si sente l’altro, cosa sta vivendo.
Oltre al sentire, occorre imparare a comunicare, ricordando che anche i gesti, la postura, il movimento delle mani, lo sguardo sono parte della “grande famiglia” della comunicazione: la comunicazione non verbale.
Da quello che sto scrivendo si può pensare che il punto critico di tutta l’umanizzazione sia la comunicazione: è vero, ma solo in parte, l’altro punto importantissimo è l’empatia.
Mi è capitato di vedere medici che si concentrano moltissimo sugli esami eseguiti che perdono di vista la persona che hanno davanti, certamente o quasi certamente faranno diagnosi, ma manca totalmente quell’affettività, permettetemi il termine, che rassicura e fa sentire curati.
Per gli infermieri l’attenzione al bisogno è spesso messa in secondo piano dalla “frettolosità”, che è diversa dall’efficienza, per cui ad esempio i pazienti che sono nell’astanteria del PS, non ricevono alcuna attenzione, neanche sui minimi bisogni quali quello di bere e di andare in bagno.
Che tristezza mi ha fatto, dopo un ottimo triage e una buona diagnosi il paziente abbandonato in quello che, noi medici stessi chiamiamo, il “girone infernale”, in attesa di un ricovero che “avverrà!
Questa è mancanza di empatia che alla fine si ritorce contro il personale stesso suscitando la violenza nei pazienti e nei parenti che attendono senza sapere nulla e demotivano medici e infermieri.
Sto giustificando la violenza? No, certamente, ma credetemi se vi trovate dall’altra parte sentite di non aver altro modo di interelazionarvi se non aggredire verbalmente chi, passando, non vi degna di uno sguardo: basterebbe informare, dire che siamo in attesa degli esami, che ci stiamo occupando del malato, che non sta succedendo nulla di grave, che le attese sono lunghe e che capiamo che possano essere piene di tensione: “ha bisogno?” È una domanda rara, si passa con indifferenza, nascosti dietro una divisa che diviene una corazza di disattenzione e disumanizzazione.
Quindi, per umanizzare le cure è necessario che medici e infermieri “discontenti”, vengano formati con giochi di ruolo seri, che li metta dall’altra parte, dalla parte di chi aspetta una piccola parola di conforto e un sorriso e, permettetemi anche un po’ di educazione.
Anche medici e infermieri hanno bisogno di sentire una direzione più vicina, un apprezzamento per chi è in trincea, una ricerca, insieme, di una soluzione che non guardi solo alla produttività, ma che faccia sentire finalmente una condivisione e una compartecipazione che conforta.
In un’indagine che abbiamo eseguito, sui medici, per una tesi di master, emerge con tristezza che il 70% di loro non avrebbe più scelto la facoltà di medicina, perché la professione è svilita e non si trovano reali motivi per apprezzarla.
Per umanizzare i servizi, dobbiamo umanizzare gli operatori altrimenti non riusciremo mai a risolvere nulla.

Gentilezza come primo passo dell’umanizzazione.
Molti di noi sono competenti, bravi medici, tecnicamente parlando, ma davvero quante volte applichiamo la gentilezza che innescherebbe un circolo virtuoso?
La stanchezza non giustifica mai l’essere scorbutici o addirittura maleducati.
La gentilezza è contagiosa, è difficile essere violenti con chi si rivolge a noi con gentilezza.
Essere gentili vuol dire essere nobili nella professione, saper superare le nostre difficoltà, la nostra stanchezza e le nostre, pur legittime frustrazioni, per avvicinare e tranquillizzare l’altro, vuol dire “capisco che tu stia soffrendo e sto facendo tutto quello che posso per aiutarti, ti chiedo molta pazienza, lo so, però tu, per me ci sei e io ci sono per te”.
La gentilezza è fatta di comprensione oltre che di buone maniere.
Mi è capitato di chiedere, come medico, a un collega, notizie di un amico che versava in gravi condizioni, che, mi era stato detto, si era risvegliato dal coma, e che ero andata a trovare.
Ho trovato il paziente ancora comatoso e, mettendogli una mano sulla fronte, mi sono accorta che era febbrile. Ho chiesto di parlare con un collega e, quando sono riuscita, questo ha avuto un atteggiamento sfuggente e poco educato, parlandomi mentre mi voltava le spalle per andarsene.
È chiaro che io, appartenendo alla categoria, so come comportarmi e l’ho “inchiodato” con le sue responsabilità, mettendolo anche in imbarazzo, ma credetemi, se non fossi stata un medico, sarei diventata aggressiva, perché ha negato la presenza di un segno oggettivo, non ascoltandomi minimamente. Certo poi si è attivato l’universo.
Questo episodio mi è stato di grande insegnamento in tutta la carriera, sarebbe bastato un ascolto attivo e si sarebbe evitata una situazione difficile da sostenere clinicamente, in cui anche la sua competenza e attenzione al paziente sono entrate in discussione.
Nulla si ottiene senza gentilezza.

Ascolto attivo come secondo passo dell’umanizzazione
L’esempio che ho fatto prima è anche il segnale di un’altra criticità.
I medici e gli infermieri tendono ad ascoltare poco i pazienti, come diceva anche il Prof Veronesi, il tempo che si dedica all’ascolto di un paziente, aveva fatto misurare questo parametro; è di pochi secondi. Sembra impossibile ma è realmente così. Dopo poche parole pensiamo di aver capito e non ascoltiamo più il resto che, invece, potrebbe essere utilissimo.
Per rendere umano un servizio è necessario ascoltare davvero il paziente, senza guardare il computer, dedicando tutta la nostra attenzione alla “persona” che abbiamo davanti, che sintetizza il troppo abusato concetto di “paziente al centro”.
Ascoltare attivamente significa guardare negli occhi, sospendere il giudizio, essere presenti.
Senza computer tra noi.
Senza pensare a quello che verrà dopo.
Con l’anima, non solo con l’orecchio.

Informazione e condivisione: il vero consenso informato
Spesso ci nascondiamo dietro il linguaggio tecnico- scientifico, certo ci nascondiamo e prendiamo inconsciamente le distanze dal paziente. Qualcuno dirà che non è vero e io dico “molto bene, bravo!”, ma può essere che la dichiarazione sia autoreferenziata, perché non ho mai verificato che sia proprio così.
Sono rimasta davvero favorevolmente colpita quando il chirurgo mi ha spiegato tutto l’intervento che dovevo affrontare, mi ha coinvolta nella decisione di una radicalità maggiore o minore, ma io sono un medico e il linguaggio che uso è lo stesso del collega.
Le decisioni difficili devono sempre coinvolgere davvero il paziente e il medico.
Purtroppo ho notato che un chirurgo di fama, ha scaricato sul paziente e sui familiari una decisione troppo difficile per loro, semplicemente perché, per me era chiaro, non voleva operare quel paziente purtroppo destinato a diventare “terminale” in poco tempo. La decisione doveva dare al paziente un’informazione seria su quanto avrebbe potuto vivere più a lungo, con un percorso di sofferenza grande e che percentuale statistica di vita in più gli donava l’intervento. Questo non è stato fatto, anzi ha gettato tutta la famiglia in uno stato di ansia e di disperazione che, davvero avrebbe dovuto essere evitata.
Il consenso informato non è un modulo da firmare.
È un patto di fiducia. È la costruzione di un’alleanza.
Umanizzare è spiegare. È prendersi il tempo per far capire. È camminare insieme.

Rispetto profondo della dignità del malato
La dignità del paziente non si misura solo nei grandi gesti, ma in ogni attenzione, in ogni parola scelta con cura.
Anche un corpo immobile ha bisogno di rispetto. Anche un volto sofferente ha diritto alla bellezza di un gesto gentile.
La dignità è non chiamare il paziente per patologia (“il tumore al letto 3”), è coprirlo durante una visita, è aspettare che finisca di parlare, è rispondere anche quando non abbiamo risposte.
È questo il rispetto che cura.

Il sorriso come modo di relazionarsi:
Troppo spesso gli operatori sanitari e i medici appaiono seri e distanti.
Un consiglio che darei a tutti è questo: dobbiamo ricordare sempre che un sorriso è un abbraccio silenzioso che avvolge e rassicura il paziente, lo rasserena.
Portare un sorriso in una stanza è come far entrare una ventata di aria fresca, è lasciare filtrare la luce tra le persiane chiuse, è accarezzare con delicatezza la complessità di una relazione umana.
Impariamo a sorridere anche quando siamo nervosi, stanchi, abbruttiti dalla fatica, perché il sorriso è una terapia anche per noi stessi oltre che parte integrante della cura.
Il sorriso è accoglienza. È dedizione che traspare anche in un volto provato.
È “esserci” per davvero, è guardare l’altro e decidere di illuminarlo con un frammento di umanità.
Il sorriso è appagante. Per chi lo riceve. E per chi lo dona.
Lavorare anche con il cuore perché “la passione” si sente è un altro passo importante dell’umanizzazione.
Chi cura senza passione si spegne. E spegne.

Lavorare con il cuore non vuol dire essere perfetti, ma essere presenti con tutto ciò che siamo: scienza e coscienza, tecnica ed emozione.
Il paziente percepisce chi ha passione. La sente nella voce, nello sguardo, nel tempo che si dedica.
La passione non si insegna, ma si può coltivare, alimentare, proteggere.
Dobbiamo ritrovare e poi proteggere la passione perduta, nonostante tutto (le incombenze burocratiche, il budget, i DRG, il bilancio..) sembra volercela togliere, dobbiamo tornare al momento in cui abbiamo scelto di “fare i medici o gli infermieri.”
Non facciamoci rubare dal sistema la nostra passione solo così saremo tecnologicamente umani e la nostra infelicità ne trarrà beneficio.
È l’unico modo per uscire tutti vincenti, noi e i pazienti.

Conclusioni
Non smetterò mai di credere a questo sogno:
Sogno ospedali che profumano di umanità, anche tra le corsie affollate.
Sogno medici e infermieri che si sentano parte di una nobile professione, non solo di un turno.
Sogno pazienti che si sentano visti, ascoltati, accolti, compresi.
Certo, forse è utopia, ma ogni cambiamento vero nasce da un sogno.
E io, quel sogno, ce l’ho nel cuore.
Ogni giorno. Ogni paziente. Ogni volta che entro in reparto.
Perché la medicina senza umanità è solo tecnica.
Ma con l’umanità, torna ad essere miracolo.
Il messaggio è semplice ma potente: la tecnologia ha bisogno di essere accolta, mediata, integrata nel lavoro quotidiano, altrimenti rimane una scatola chiusa, piena di promesse ma priva di impatto reale e persino dannosa.
La tecnologia è sempre relazione. Relazione tra dispositivi e persone, tra dati e contesto, tra algoritmi e coscienza clinica. Ogni successo nasce dalla capacità di integrare il digitale nel tessuto vivo della cura, ogni fallimento nasce dalla disconnessione tra innovazione e realtà. Gli operatori sanitari, i medici, gli infermieri, i tecnici sono chiamati a diventare artigiani del cambiamento, capaci di usare gli strumenti più moderni ma senza mai dimenticare che al centro c’è sempre una persona, con il suo corpo, la sua storia, la sua fiducia.
Ben venga la tecnologia, nessuno si oppone al futuro, che è già oggi, ma non perdiamo la forza di “quell’umanità nel sentire” che distingue il “buono” dall’eccellente.

Bibliografia
- Veronesi, U. (2008). Dell’amore e del dolore delle donne. Einaudi.
Per la sua visione umanistica della medicina e per il riferimento esplicito al tema dell’ascolto nella relazione di cura.
- Tronto, J. C. (1993). Moral Boundaries: A Political Argument for an Ethic of Care. Routledge.
Una delle opere fondamentali sull’etica della cura, utile a sostenere la riflessione sull’umanizzazione dell’assistenza.
- Lown, B. (1996). The Lost Art of Healing: Practicing Compassion in Medicine. Ballantine Books.
Un classico che affronta la perdita della dimensione relazionale nella medicina moderna.
- Egnew, T. R. (2005). “The Meaning of Healing: Transcending Suffering.” Annals of Family Medicine, 3(3), 255–262.
Un articolo chiave che aiuta a definire il significato profondo di “cura” come risposta alla sofferenza.
- Montini, T., & Mastroianni, A. (2014). Empatia e relazioni di cura. Il Pensiero Scientifico Editore.
Un volume italiano utile per contestualizzare in modo concreto e formativo la pratica dell’empatia nel lavoro clinico quotidiano.
- Gawande, A. (2014). Essere mortale. Come scegliere la propria vita fino in fondo. Einaudi.
Testo fondamentale sul rispetto della dignità del paziente, con un focus sulla fase finale della vita.
- Charon, R. (2006). Narrative Medicine: Honoring the Stories of Illness. Oxford University Press.
Opera fondativa della medicina narrativa, utile per supportare i temi del racconto, dell’ascolto attivo e del rispetto della soggettività del paziente.
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